L’importanza strategica della innovazione varietale

L’importanza strategica della innovazione varietale

Il Policy Brief delle Nazioni Unite “The Impact of COVID-19 on Food Security and Nutrition” sollecita investimenti in un futuro sostenibile: “Investimenti accelerati dovrebbero essere il pilastro della risposta al COVID-19, mirando ad un impatto immediato per sostenere e migliorare gli attuali livelli di vita, ma anche a preparare sistemi agroalimentari più inclusivi, più sostenibili e più resilienti”. Il Policy Brief richiede inoltre che le risorse dedicate al contrasto del COVID-19 siano usate con un approccio “build to transform”, costruisci per trasformare, e che le utilizzazioni siano  “evidence-based”, fondate su prove di efficacia. In altre parole, il Policy Brief sollecita innovazione di sistema in grado di avere impatti trasformativi. Ma come possiamo tradurre in azioni concrete queste preziose raccomandazioni? Sicuramente bisogna investire in ricerca, assicurando fondi adeguati non solo per finanziare programmi e progetti di respiro adeguato, ma anche per reclutare e motivare una appropriata leva di giovani ricercatori e per liberare le attività sperimentali da lacci e lacciuoli di ordine burocratico, che attualmente le imbrigliano. Ma l’intensificazione delle attività di ricerca ed il conseguimento di risultati scientifici, da soli, sono elementi necessari ma non sufficienti per l’innovazione dei sistemi agroalimentari. Lo sviluppo di una situazione di contorno favorevole alla innovazione tecnologica, sociale ed organizzativa.

In particolare, la innovazione varietale è oggi più che mai necessaria per adeguare l’offerta dei prodotti agricoli alle esigenze qualitative del mercato, per migliorare l’efficienza di uso delle risorse e quindi aumentare la competitività delle imprese agricole, per rendere le produzioni agricole più sostenibili da un punto di vista ambientale. Ciò nonostante, le attività di miglioramento genetico delle piante sono state negli ultimi decenni drasticamente ridotte, in particolare quelle rivolte alla costituzione di nuove varietà. I fattori che hanno determinato questa situazione sono molteplici, ma due meritano particolare attenzione:

  1. L’attuale legislazione europea in materia di approvazione del rilascio di nuove varietà ottenute mediante tecniche biotecnologiche avanzate, tra barriere chiare e norme ambigue, costituisce un ostacolo praticamente insormontabile alla diffusione dei risultati delle più recenti acquisizioni di biologia molecolare e cellulare. Questo rifiuto sostanziale delle moderne tecnologie pone l’agricoltura europea in generale e quella italiana in particolare in posizione di netto svantaggio competitivo nei confronti delle agricolture dei Paesi con normative meno restrittive, senza peraltro offrire nessun vantaggio ambientale o di sicurezza degli alimenti, considerato che sia Europa che Italia sono importatrici nette di derrate alimentari prodotte altrove anche mediante l’applicazione di tecnologie genetiche avanzate. Oggi poi che ai già collaudati Organismi Geneticamente Modificati – introdotti ormai 25 anni fa – si affiancano nuove tecniche più precise, più sicure e più performanti, quali il genome editing, ci sembra suicida rinunciare alla opportunità di coltivare varietà in grado di dare più prodotto con qualità nutrizionali più elevati e con un impatto ambientale più limitati. La politica dell’Unione Europea, invece di incentivare questo tipo di innovazione, oscilla e dà segnali confusi, alternando segnali positivi a scoraggianti battute di arresto. Inutile ricordare che la ricerca è investimento di lunga durata e che necessita quindi di certezza del quadro normativo.
  2. Le attività di miglioramento genetico delle piante coltivate sono oggi mortificate dalla esiguità della industria sementiera nazionale, spesso non in grado di offrire il necessario sbocco di moltiplicazione, selezione e diffusione di varietà adattate alle nostre esigenze qualitative e pedoclimatiche. Le società sementiere italiane, che pure vantavano una tradizione gloriosa ed un know-how di tutto rispetto, sono state negli ultimi anni assorbite in gran parte da imprese straniere. Il combinato disposto della falcidia di attività pubbliche di ricerca e della scarsa portata dell’industria sementiera nazionale porta quindi alla diffusione di cultivar selezionate in ambienti diversi dal nostro e spesso non adatte alla esigenze qualitative del nostro mercato. Se alla luce delle recenti contingenze gli approvvigionamenti agroalimentari assumono una valenza strategica per il Paese, la situazione dell’industria sementiera assume essa stessa connotazioni strategiche e come tale deve essere considerata.

Queste due situazioni debbono essere affrontate con decisione della amministrazione pubblica, se non si vuole limitare la politica agraria del nostro Paese ad una sequela di lamentele sulla ridotta competitività del nostro sistema agroalimentare, ma si vuole dare un deciso impulso alle produzioni agricole adottando un approccio build to transform” e “evidence-based”.

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Autore : Andrea Sonnino, Presidente FIDAF

8 pensieri su “L’importanza strategica della innovazione varietale

  1. Il tema è veramente decisivo su tutti e tre i livelli. Su scala mondiale il miglioramento varietale è strumento irrinunciabile per combattere la fame nel mondo e anche per la forestazione come intervento contro i cambiamenti climatici che va perseguita con decisione, ma scegliendo le varietà adatte, oltre che curando non solo la messa a dimora, ma anche la “coltivazione”.
    Su scala UE perché con tutti i suoi limiti è l’unica struttura sovranazionale che ha sensibilità, competenze e mezzi finanziari per garantire ai propri cittadini disponibilità, qualità, prezzi e sostenibilità dell’agroalimentare, e anche capacità di influenzare significativamente situazioni e prospettive nel resto del mondo in primis nei Paesi in crisi dal punto di vista alimentare . Finora l’UE non è stata all’altezza delle proprie responsabilità e potenzialità e l’articolo è troppo benevolo nel rappresentare la situazione. Le circostanze (nuova leadership, volontà di reagire alla crisi, decisione di investire, priorità al new green deal) debbono essere colte per definire e attuare una strategia da protagonista.
    Su scala nazionale una gloriosa tradizione, che spazia dalla dimensione ricerca a quella delle strutture di promozione e diffusione a quella del mondo produttivo, si sta inaridendo per trascuratezza di strutture decisionali preposte, ma anche per una diffusa cultura neoliberista o iperliberista che conta sull’evoluzione automatica del mercato verso la soluzione ottimale i cui guasti si moltiplicano se accoppiati a una frammentazione sottocritica di centri decisionali. Va riconosciuto che nel comparto agroalimentare italiano in generale il quadro della costellazione dei ruoli non è troppo lontano da quello ottimale: lo Stato fissa obiettivi e regole e verifica il loro conseguimento; le Regioni formulano e gestiscono programmi mirati al conseguimento degli obiettivi con rifermento a vincoli specificità ed esigenze variamente riscontrabili nei territori, la comunità scientifica esprime contributi e presta assistenza, il sistema delle imprese ha certezze sulle finalità e sulle regole, ma al contempo è oggetto di adeguati controlli. Lo specifico del miglioramento varietale è purtroppo un’eccezione negativa. False convinzioni, trascuratezza, mancanza di scelte e di risorse hanno creato un vuoto che viene occupato da interessi particolaristici di vario genere. Occorrono una proposta strutturata e condivisa e un soggetto istituzionale, il MIPAF, che guidi in questo ambito il processo di rilancio, senza esitazioni, applicando tutti gli strumenti previsti dal quadro normativo (ivi inclusa la costituzione di organismi societari con partecipazione pubblica se risulterà necessario) caratteristici dei comparti strategici, nel quadro di un più generale sforzo del Paese verso un sistema socio economico innovativo e sostenibile.

  2. Speriamo che il pregevole articolo del Presidente Sonnino sia letto con occhio obiettivo da coloro che si occupano di tecnologia genetica, dell’industria sementiera, della competitività del sistema agro-alimentare, di OGM, utilizzando le soluzioni proposte per i problemi da Lui evidenziati.

  3. L’Italia sembra scegliere lo sviluppo senza ricerca!
    L’innovazione varietale è strategica per il nostro Paese come scrive Andrea Sonnino e bene ha fatto Fabio Pistella a sottolineare i tre livelli (mondiale, europeo e italiano) che rendono difficile un approccio “build to transform”, costruisci per trasformare, e che le utilizzazioni siano “evidence-based”, fondate su prove di efficacia. In altre parole, il Policy Brief sollecita innovazione di sistema in grado di avere impatti trasformativi.
    L’innovazione (genetica, agronomica, chimica e meccanica) contribuisce a sfamare le popolazioni, ridurre i prezzi dei prodotti agricoli, alleviare le fatiche degli agricoltori, bonificare alcuni territori e sviluppare una forte industria alimentare.
    Oggi l’agricoltura è in grado di nutrire i 7 miliardi di persone che popolano il pianeta, utilizzando 1,5 miliardi di ettari di terreno, ossia poco più della superficie coltivata all’inizio del secolo scorso, quando il pianeta era abitato da 1,7 miliardi di persone e solo pochi potevano alimentarsi a sufficienza. Alla base di tale successo c’è il miglioramento genetico delle piante agrarie.
    Esemplare è la storia del grano. Per oltre 10.000 anni, gli agricoltori si sono adoperati, con scarso successo, per aumentare la produttività del grano, finalmente, nei primi anni del secolo scorso, quando in Italia la produzione media per ettaro oscillava tra 4 e 6 quintali per ettaro, l’agronomo Nazareno Strampelli incominciò a incrociare diverse varietà di grano con l’obiettivo di ottenere, piante più precoci, più resistenti alle malattie, e soprattutto più basse, in modo da resistere al vento e alla pioggia. Di particolare aiuto fu una varietà di grano giapponese (AkaKomugi) che gli consentì di selezionare e ottenere grani bassi, precoci, resistenti alle malattie e più produttivi (oltre 60-70/quintali ad ettaro!). Egli combinò con gli incroci, tanta biodiversità che proveniva da grani francesi, olandesi, inglesi e giapponesi in un solo tipo, una sola varietà. Fu l’inizio di una rivoluzione che si sarebbe estesa in tutto il mondo: i pro-pro-nipoti dei grani di Strampelli, forniscono attualmente due terzi dei 7 miliardi di quintali di grano prodotto, annualmente, nel mondo. La rivoluzione del grano, accompagnata dall’analogo sviluppo delle altre colture, è stata favorita dalla meccanizzazione agricola, dall’impiego dei fertilizzanti e dei “fitofarmaci”.
    C’è una data storica riportata dall’autore Emanuele Bernardi, Storia di un’innovazione tra politica, economia e religione di (Carocci editore, 2014), che può essere presa a riferimento: il 23 settembre 1959. È quando il premier sovietico Krusciov, in visita negli Stati Uniti, partecipa ad una festa in suo onore in una grande fattoria che produce mais ibridi. Affascinato dalle innovazioni che ha sotto i propri occhi, lo statista non ha difficoltà a riconoscere che il confronto tra le due agricolture, quella statunitense e quella sovietica, veda in netto e irriducibile vantaggio la prima a scapito dell’altra e che dunque non abbia più senso una competizione tra due modelli non più contendibili. Quello occidentale può, infatti, garantire la crescita, mentre quello sovietico, qualora dovesse prevalere, condurrebbe inesorabilmente ad un impoverimento sociale ed economico diffuso. Oggi la Russia è un importante Paese esportatore di Cereali.
    La scelta del galleggiamento per l’Italia è ancor più nefasta perché si accompagna ad un’altra opzione, questa volta assunta in modo solitario come unico paese industrializzato: quella di perseguire un “modello di sviluppo senza ricerca”, pur possedendo un livello di capacità scientifiche e tecnologiche tra i più alti in Europa e nel mondo. Ci sono almeno quattro casi clamorosi che dimostrano come i governi dell’epoca rinuncino allo sviluppo della ricerca scientifica e all’innovazione: Olivetti e la rivoluzione informatica, Mattei e l’autonomia energetica, Ippolito e la produzione di energia elettrica di origine nucleare, Marotta e la produzione di penicillina. (Alfonso Pascale)
    A questi quattro casi andrebbe aggiunto quello della genetica agraria.
    Dopo il periodo luminoso delle attività sperimentali di Strampelli, ci fu nel dopoguerra la fase egemonica dei mais ibridi americani. Solo alla fine degli anni cinquanta, Fenaroli può introdurre quattro serie di mais ibridi, utilizzando anche geni nostrani. Negli anni settanta, il CNEN/ENEA nell’ambito del gruppo di genetisti del Centro della Casaccia ottengono la cultivar di grano duro denominata “Creso” mediante ibridazione di più geni e irradiazione combinata di neutroni e raggi gamma nel frumento duro “Senatore Cappelli”. Negli anni ottanta e novanta Creso rappresenta il 50% della produzione italiana di grano duro e viene utilizzata nei programmi di miglioramento genetico di altri paesi del mondo. Allora c’era l’obbligo del seme certificato!
    Nei prossimi decenni, l’ulteriore incremento della popolazione mondiale e l’aumento delle conseguenti esigenze alimentari, avranno un quasi certo incremento dei costi degli alimenti, che potrà essere contrastato solo con l’aumento della produttività per unità di superficie utile.
    Quindi la soluzione di tali problemi dovrà contare principalmente sui progressi della ricerca in agricoltura, approfondendo e finanziando particolarmente le ricerche pubbliche nella genetica applicata, nella fisiologia vegetale e animale, nella lotta ai parassiti, nel controllo dei problemi ambientali, incluse le zoonosi, così da incrementare la produttività degli operatori agricoli, agroalimentari.
    In questi ultimi anni l’industria sementiera ha visto un importante ingresso di grandi imprese multinazionali in questa attività, molte delle quali già di importanza mondiale nel settore farmaceutico e chimico anche specifico (con fitofarmaci e fertilizzanti), dedicando in questo comparto ingenti fondi e competenze biologiche avanzate nella ricerca, specialmente nei miglioramento genetico e quindi nella diffusione delle sementi, in particolare di vari cereali, oleaginose e proteaginose, di importanza fondamentale per la nutrizione umana e zootecnica.
    Inoltre, il potere politico, finora frammentato in una miriade di Stati (oltre 200), dovrà in futuro essere sempre più esercitato da presenti e futuri raggruppamenti di Stati, (Unione Europea, Unioni degli Stati Africani, Asiatici, Nord, Centro e Sud America) per essere in grado di disporre ed attuare le norme necessarie ed idonee a controllare efficacemente le attività delle Organizzazioni multinazionali private, a favore delle loro popolazioni.
    Complessivamente il settore sementiero conta su circa 300 aziende, di queste 80 commercializzano specie orticole. Sulla base dei dati disponibili, sono importate in Italia sementi per un valore di circa 360 milioni di euro, mentre le esportazioni ammontano a circa 255 milioni di euro. “Le società sementiere italiane, che pure vantavano una tradizione gloriosa ed un know-how di tutto rispetto, sono state negli ultimi anni assorbite in gran parte da imprese straniere” come scrive Andrea Sonnino.

  4. Nei 50 anni vissuti nel mondo delle sementi ho visto:
    1° non nascere la creazione degli ibridi mais italiani quando, invece, gli americani li avevano forniti al Prof Fenaroli. Ciò per colpa della Federconsorzi.
    2° Ho visto man mano morire l’industria sementiera italiana della barbabietola da zucchero e soprattutto dilapidare il germoplasma del Prof Munerati (conteneva la resistenza alla cercospora, alla rizomania e perfino la monogermia). Non dico che sia l’unica causa della sparizione della filiera bieticolo saccarifera italiana, ma vi ha contributo in quanto abbiamo continuato ad usare varietà create all’estero e adatte ad un ciclo di coltivazione più lungo del nostro.
    3° Abbiamo dilapidato il nostro germoplasma orto-frutticolo e se ne sono avvantaggiate società estere che lo hanno reperito gratis tra l’altro.
    4° La creazione varietale sui cereali a paglia (ma solo frumento tenero e duro) è durata di più. Tuttavia dopo che il materiale lasciatoci da Strampelli, Orlandi e altr genetisti ha fatto il suo tempo non siamo stati capaci di creare più nient’altro e in conseguenza di ciò l’industria sementiera dei cereali a paglia si è esaurita nel tempo. Il grano duro è un esempio che si confronta con la creazione varietale francese del duro, appunto. Essa è stata creata dal nulla a partire dal 1975. Per crearla si sono messi assieme sementieri, ricerca pubblica e pastai ed in 30 anni hanno creato un’industria sementiera che oltre a venderci oggi le loro produzioni di grano duro ci surclassano anche sulla creazione varietale, benchè non create per i climi del nostro Sud.
    Noi avevamo le stesse possibilità, se non migliori in fatto di moltiplicazione, di essere alla pari dei francesi il cui settore sementi è il terzo nel mondo, il settore fattura 3,3 miliardi di € (di cui 1/3 è eccedente commerciale) e di questi il 50% e dato dalle esportazioni.
    Quando in Italia si capirà che il settore sementiero è strategico sarà sempre troppo tardi, ma le avvisaglie di ravvedimento non ci sono se osserviamo cosa si dice nel DDL 988 in approvazione al senato. Si tornerà a vendere le sementi sui mercati sulla base di un campione avvolto nella carta da zucchero come si faceva negli anni 1950/60.

  5. Caro Andrea,

    grazie per l’interessante riflessione e grazie anche agli altri che hanno commentato arricchendo il tuo scritto.

    Da liberale credo che il compito di uno Stato lungimirante sia quello si creare le condizioni (sinergie con la ricerca pubblica, incentivi e disincentivi, ecc.) perché si crei un circolo virtuoso che porti verso l’alto le attività sementiere private nel nostro paese. Ciò anche perché vari sistemi colturali sono solo nostri e non ci penseranno certo gli altri a toglierci le castagne dal fuoco.

    L’unica cosa rilevante che il Parlamento ha saputo partorire in questi anni è invece l’articolo 9 del DDL 988 che, come giustamente sottolinea Alberto Guidorz,i riporta ad antichi riti che speravamo di avere per sempre cancellato. Alla luce di ciò credo che un obiettivo importante (anche se, mi rendo conto, di retroguardia e che ci allontana inesorabilmente dal “filo della corrente”) sia oggi quello di difendere le normative sementiere dai seguaci della “selezione partecipata”.

    Un cordiale saluto a tutti.

    Luigi Mariani

  6. Analisi molto interessante.
    Unico appunto, non trovo corretto dire che le nuove tecnologie che abbiamo a disposizione per il miglioramento genetico siano più sicure degli ogm. Non porrei la questione in termini di sicurezza: gli ogm in commercio sono, alla prova dei fatti, totalmente sicuri: D’altra parte le tecnologie di correzione del genoma possono avere degli effetti off target non previsti. Quindi come al solito il punto non è la tecnologia usata che si deve valutare, ma il risultato ottenuto.
    Infine, per aiutare a risolvere il clima di ostilità che si è creato, suggerisco a scienziati e agricoltori di rivolgersi a comunicatori professionisti. Noi facciamo un altro mestiere, anche comunicare richiede competenze che sono necessarie per non esacerbare gli animi. Lo abbiamo ben visto con l’indecoroso spettacolo offerto durante l’emergenza covid

  7. Ringrazio tutti i colleghi che hanno inviato commenti molto rilevanti e stimolanti. Sono d’accordo con l’appunto mosso da Deborah: gli ogm approvati hanno superato una rigorosa analisi del rischio e sono totalmente sicuri. Le nuove tecnologie sono più precise e più performanti.

  8. Deborah Piovan dice:

    “D’altra parte le tecnologie di correzione del genoma possono avere degli effetti off target non previsti”

    Dato che nel miglioramento vegetale tutte le tecnologie (classiche o emergenti) hanno l’obiettivo di correggere il genoma della pianta che si vogliono migliorare, porto un esempio che ha fatto testo in Francia.

    Nel 1987 su due varietà che stavano dominando il mercato quali Pernel (INRA) e Moulin (PBI) si notarono delle perdite di produttività che andavano da 0 a 80% in particolare in due ragioni, la Normandia e la Bretagna. Subito si pensò agli effetti del gelo sulla spiga verificatosi eccezionalmente in maggio di quell’anno. Un’analisi successiva più approfondita portò a dire che si era verificata un’insufficiente illuminazione in una fase precoce dello sviluppo degli organi di riproduzione tanto da indurre sterilità. Cioè si constatò che l’anno 1987 era stato particolarmente eccezionale da questo punto di vista al punto da evidenziare delle vere e proprie debacle di produzione. Il fenomeno dette luogo a chiamate in giustizia dei costitutore le varietà da parte degli agricoltori e fu grazie alle numerose perizie e sperimentazioni condotte, che si svelò la causa scatenante, tuttavia dato che altre varietà seminate negli stessi luoghi e con metodi di coltivazioni non dissimili non presentarono lo stesso fenomeno evidentemente nelle due varietà vi era una base genetica diversa.
    Interessante fu la sentenza in merito alle cause intentate: si disse che si trattava di un effetto off-target, ma di cui il costitutore non doveva essere ritenuto colpevole in quanto nei 10/12 anni di coltivazione per la costituzione delle varietà non si erano mai evdenziate condizioni tali da rendere palese l’off-target.

    Imputare quindi il pericolo di off-target alle sole biotecnologie moderne significa non sapere che l’attività di creazione varietale ha ancora una sua non indifferente percentuale di aleatorietà. I rischi sono e saranno sempre nell’ordine delle cose ed è per questo che qualsiasi tecnica si usi bisognerà destinare un tempo sufficiente a verificare le derive che la professione di costitutore ancora presenta.

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