L’agricoltura intensiva e la pandemia da COVID-19

L’agricoltura intensiva e la pandemia da COVID-19

Nelle scorse settimane, a seguito del drammatico diffondersi della Covid-19 causata dal virus SARS-CoV-2 e la conseguente risposta del governo italiano, avevamo con sorpresa sentito pronunciare frasi del tipo “nulla sarà più come prima”, oppure “bisogna tornare ad affidarsi agli esperti”. Sorpresa in verità piacevole, avendo da poco ultimato la lettura di Disinformazione scientifica e democrazia, di M. Dorato (Raffaello Cortina editore), che tutto ciò preconizzava. In realtà, l’illusione è stata di breve durata e, almeno per l’agricoltura, nulla sembra voler cambiare. Assai presto è infatti iniziata una serie di interventi giornalistici sul tema del momento: il virus SARS-CoV-2, ma questa volta nella sua possibile relazione con natura e agricoltura. In particolare, interventi di M. Tozzi (geologo) su la Stampa del 16 marzo, di G. Schinaia (esperto di diritto) su Avvenire del 18 marzo e 15 aprile, di Davide Milosa (Storico della Filosofia) e Maddalena Oliva (Giornalista) su il Fatto Quotidiano del 19 marzo, di Grammenos Mastrojeni (Diplomatico) e Fiorella Belpoggi (Medico-scienziata) su Ecopolis del 25 marzo, di Francesco De Augustinis (Scienze della Comunicazione) su Il Salvagente del 26 aprile, di Francesco Sala (animalista e giornalista) su il Corriere della Sera del 29 aprile e forse molti altri – con i quali mi scuso – che mi saranno sfuggiti. Ad accomunarli, insieme al virus, è stato il fatto di avere quali autori degli esperti…si, ma non certo di agricoltura (e nemmeno di biologia), che pure hanno coinvolto in quanto causa remota o concausa del morbo virale. L’idea di fondo di questi articoli, e di un servizio televisivo di Report del 13 aprile, è stata infatti la seguente: l’agricoltura intensiva (soprattutto l’allevamento) è la causa di una lunga serie di impatti negativi sull’ambiente (deforestazione, inquinamento, cambiamenti climatici ecc.), che nel loro insieme hanno portato all’emergere del SARS-CoV-2 e/o contribuito all’esplosione pandemica della Covid-19.

Prima di entrare nello specifico, una premessa; Bernard-Henri Lévy su la Stampa del 24 marzo 2020 ha richiamato che: “Dobbiamo abbandonare l’idea di una relazione di causa ed effetto fra globalizzazione ed epidemia”; cui lo scrittore Mauro Ceruti (Avvenire del 28-04-20 a pag. 23) ha aggiunto un significativo commento: “…ciò in partenza significa ammettere che tutto è connesso. Che non bastano risposte tecniche a singoli problemi. Il morbo del nostro tempo è la semplificazione. Siamo figli dell’abitudine moderna a pensare che le cose abbiano una spiegazione semplice.” Come si vedrà poi, è infatti inverosimile che – a fronte di problemi estremamente complessi quali origine e diffusione di una pandemia – la risposta rapida e liberatoria, ancorché diffusa, sia stata: agricoltura intensiva = deforestazione e comunque impatto negativo sull’ambiente (PM10 e cambiamenti climatici) = passaggio dei virus dagli animali all’uomo = pandemia. A fronte di queste semplificazioni, oggettivamente imbarazzanti e largamente false, vediamo di riordinare le idee: partendo dal concetto di zoonosi, per passare ai processi di alterazione dei sistemi ambientali, indi illustrare il ruolo che l’agricoltura (e ora quella intensiva) ha avuto e ha, per poi concludere sulle ipotesi che, ragionevolmente, possano far sperare in un futuro realmente migliore.

LE ZOONOSI

Per conoscere il significato di zoonosi, di cui alcune sono epidemiche-pandemiche, è sufficiente aprire Wikipedia: con questo termine si intende una qualsiasi malattia infettiva che può essere trasmessa dagli animali all’uomo direttamente o indirettamente (per tramite di altri animali vettori: zanzare, mosche, zecche ecc.). Molte malattie infettive, anche epidemiche, sono iniziate come zoonosi, ovvero l’agente patogeno ha subito una modificazione che gli ha permesso di compiere il salto di specie o spillover adattandosi a vivere e moltiplicarsi non solo nell’animale ma anche nell’organismo umano…

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mucche

 

 

 

Autore : Giuseppe Bertoni, Emerito di Zootecnica Speciale, Università Cattolica del S. Cuore, Piacenza; Comitato Scientifico Centro di ricerca IRCAF

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