Dal chicco al business, così il caffè trasforma i contadini in imprenditori

Dal chicco al business, così il caffè trasforma i contadini in imprenditori

I contadini dell’Alta Verapaz sono in genere diffidenti nei confronti degli estranei. È così anche per quelli di Sololà e Huehuetenango. Rispondono alle prime domande con un misto di deferenza e rancore, forse dovuto a certe stragi che per secoli sono state perpetrate su questi altipiani del Guatemala. Si tratta però solo di un approccio iniziale e la loro reazione diventa entusiasta quando, per esempio, scoprono che stai cercando esattamente loro. C’è una sola cosa che li rende ancora più felici dell’apprendere che sono famosi nel mondo per la qualità del loro caffè ed è quella di sapere che stanno parlando con un italiano.

 Nella Cooperativa Chipolem Chiyò nessuno ha mai visitato il nostro Paese, ma hanno conosciuto di persona qualche nostro connazionale, che è risultato particolarmente importante nelle loro vite e nella crescita delle loro attività. Qui il dottor Battaglia dell’Istituto Agronomico per l’Oltremare (Iao) lo chiamano «Don Massimo» e ne parlano con grande rispetto. Stessa storia anche alla Chicoj, alla San Miguel e in tutte le altre cooperative, che in totale sono nove. Se qualcuno passerà di qui prima o poi, scoprirà che la frase: «Sopra ogni cosa voglio ringraziare l’Italia», finirà per suonargli famigliare, così come l’interesse per certe strane macchinette che, a loro dire, noi metteremmo sui fornelli per fare una quantità ridicola di caffè.

 La maggior parte di queste piccole coop, che il ministero degli Esteri ha coinvolto nel progetto CafeyCaffé, destinandogli circa 1 milione di euro in cinque anni, affinché incominciassero a tostare e impacchettare il prodotto, oltre che coltivarlo e raccoglierlo, sono nate negli Anni Settanta, in piena guerra civile. La questione si trascinava dal 1960, ma si può andare anche più indietro, fino ai tempi in cui il Guatemala era ancora solo una «repubblica delle banane», controllata dalla United Fruit.

 Per capire la realtà di questi contadini, si può parlare de La Voz que Clama en el Desierto (La voce che invoca nel deserto). Questa coop cafetalera dal nome pieno di speranza fu saccheggiata 3 volte, nonostante le rive del lago Atitlan, su cui sorge e da cui trae l’aria speciale che dà un sapore unico al suo caffè, non siano state nemmeno una delle zone più colpite dalle ostilità. I colleghi della Samac invece si trovano in piena Frangia Trasversale Nord, la regione che concentra il maggior numero di vittime. Antonio, che in questi campi spende i suoi giorni, così come fecero il nonno, il padre e vorrebbe facessero i figli, riconosce che quei tempi non furono facili.  

Anche il numero dei morti è uno dei dati in discussione: 200 mila secondo l’Onu, mentre i dispersi sarebbero un quarto. Molti di più o assolutamente meno sono invece per certe altre fonti, come l’attuale presidente Otto Perez Molina, un ex ufficiale che fu personalmente impegnato nel conflitto. Tra le cose certe, invece, c’è la data in cui è stata firmata la pace: il 29 dicembre del 1996. Poi, la condanna ad 80 anni di prigione del dittatore Efrain Rios Montt, il successivo annullamento della sentenza e l’inizio di un processo tuttora in corso. I suoi due anni di governo (1982-83), furono i più duri in assoluto e il suo atto politico più rilevante viene detto «Genocidio Maya».

Chisec, Panzos, Acul, La Llorona e Calapté sono nomi di alcuni villaggi nel raggio di 100 km, tutti decimati dalle stragi dell’esercito e, in minor misura, dai guerriglieri comunisti. Nella lingua maya del Q’eqchì, che i locali preferiscono per le faccende quotidiane, la parola caffè si dice praticamente come si dice in italiano: capeh. Questo divenne il principale prodotto d’esportazione del Guatemala, quando la United Fruit mise il marchio Chiquita su tutte le banane. Gran parte delle terre furono espropriate agli autoctoni e vendute ai coloni in arrivo dalla Germania. Così, persone come il tedesco Augusto Elmerich si trovarono a seminare i lotti che oggi appartengono alla Samac, disponendo della vita e della morte dei loro braccianti.

Quando nel 2009 il dottor Battaglia è arrivato in questa valle boscosa, dispersa nella terza economia più povera dell’America Latina, l’azienda tostava il caffè con un forno a legna. Grazie alla cooperazione italiana, che porta avanti progetti analoghi anche in Salvador, Costa Rica, Nicaragua e Repubblica Dominicana, ora c’è un essiccatoio solare, più economico e più ecologico del precedente o degli omologhi a diesel usati altrove. Poi, i resti del raccolto vengono riciclati e diventano humus per coltivare i funghi. Alla Voz que Clama en el Desierto sono andati anche oltre. Il loro caffè viene certificato come biologico e offrono un coffe tour che permette ai turisti di vedere la lavorazione e assaggiare gli infusi.

I propositi di CafeyCaffé però vanno oltre il piacere della degustazione. Battaglia spiega che «l’idea è quella di permettere ai consumatori di sapere da dove viene ciò che bevono e garantire i diritti di chi lo produce». Le donne associate a queste coop sono state tra le più beneficiate. Prima relegate alle mansioni manuali, ora e per requisito del programma, partecipano a tutta la lavorazione, guadagnando come i loro compagni. Per giudicare il risultato, basta cercare sugli scaffali del supermercato i pacchetti del Caffè Corsini, del Gemini, del Mokakenia o di una qualsiasi delle altre circa 15 marche che hanno aderito all’iniziativa: dentro, ci troverete 500 grammi di storia del Guatemala e un pizzico d’Italia.

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Autore : Filippo Fiorini - LA STAMPA

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