In un recente post dedicato alle azioni da intraprendere per affrontare concretamente con una risposta globale il tragico intreccio di questioni composto dalla crisi economico-finanziaria, dalle migrazioni, dall’attacco dell’ISIS, dal terrorismo mettevo in evidenza tra le linee indispensabili di intervento quella di programmare e gestire attraverso una collaborazione internazionale  la programmazione e la gestione degli indispensabili investimenti nei paesi di provenienza l’unico tipo di intervento in grado di perseguire concretamente una soluzione a regime, promesso invano da decenni che hanno visto invece un’inadeguata gestione a tutti livelli della famigerata cooperazione allo sviluppo.

 Fermo restando purtroppo il giudizio negativo sul complesso delle attività degli organismi internazionali preposti a questa questione richiamo l’attenzione, nello spirito di evidenziare iniziative in corso che vanno nella giusta direzione sull’intervento denominata “grande muraglia verde nel Sahara”. Un progetto che, come illustrato per esempio dal sito il Post , coinvolge 21 paesi e mira a creare una striscia di alberi lunga quasi ottomila chilometri e larga quindici che colleghi la costa atlantica africana a quella affacciata sull’Oceano Indiano, per prevenire che la zona soggetta a desertificazione si sposti più a sud e soprattutto per rendere di nuovo coltivabili attraverso anche una modifica del microclima aree attualmente troppo aride.

 L’iniziativa “Grande Muraglia Verde” ha visto confermato un ampio appoggio politico visto che è stata menzionata dal Presidente Francese Hollande come una priorità  nel contesto della Conferenza sui Cambiamenti Climatici COP21 tenuta a Parigi nello scorso dicembre. Bene, speriamo che vada avanti con la necessaria continuità di visione e con le messe a punto operative eventualmente necessarie.

Duole dover constatare come anche qui colpiscano gli  “annientalisti” come li chiama Jacopo Fo,  (coloro che dicono di no sempre, a tutto, a prescindere) che ho altre volte evocato. In questo caso milita tra gli “annientalisti” anche il coordinatore dell’auto proclamato Forum Permanente per la Scienza e la Tecnologia (denominazione forse un po’ troppo generica) che rappresenta al Ministro per gli Affari Esteri e la Cooperazione “l’inefficacia e inutilità della cosiddetta Grande Muraglia Verde, decisa al recente Vertice mondiale di Parigi”controproponendo la riesumazione di un vecchio progetto dallo stesso coordinatore proposto in passato basato su una razionalizzazione delle tradizionali pratiche culturali. Già c’è da temere che COP 21 sia l’ennesimo esempio di montagna che partorisce il topolino. Non mi sembra opportuno che qualcuno si adoperi per fermare le poche azioni concrete che “hanno gambe per camminare”.

 Quanto al metodo, tralascio commenti sul potenziale manifestarsi di personalismi relativi a chi aveva, ha avuto o ha “il progetto migliore”; accenno solo che avrei preferito proposte concrete di aggiornamento / integrazione / al limite riorientamento del progetto in corso. Sui contenuti, commento la logica di difendere le tecniche  – e in particolare le sementi – “tradizionali”  proseguendo nell’errore di non utilizzare in Africa gli strumenti che hanno portato ai progressi della Rivoluzione Verde perseguita da Norman Borlaug  e estesa in particolare al riso da M. S. Swaminathan che ha trasformato negli anni ‘70 gran parte dell’Asia da luogo di carestia in regione autosufficiente per le derrate alimentari base.

 Non mancano i critici ex-post di questa trasformazione e vanno adottati gli opportuni accorgimenti correttivi dettati dall’esperienza avviando quella che viene chiamata la Seconda Rivoluzione Verde. Ma non va ignorata la portata dei risultati a suo tempo ottenuti. Ho esposto qualche considerazione al riguardo in un post dal quale estraggo due figure che a mio avviso sono molto eloquenti rispettivamente sulla produzione alimentare e sulla aspettativa di vita alla nascita (confrontare Asia e Africa che negli anni ’60 avevano lo stesso valore – 45 anni – e ora variano – 70 anni contro 55 anni).

Si ripete, purtroppo, l’ingenua proposta di cristallizzare una stagione temporale ignorando il senso della storia. Seguendo questo approccio qualcuno potrebbe dire che ancora più autentica e locale era la tecnologia agricola dei faraoni e che la soluzione più rispettosa dei saperi e delle tradizioni locali sarebbe la rimessa in produzione dei semi di granaglie trovati nelle tombe dei faraoni. Peraltro in tal modo si offenderebbe anche la memoria del popolo egiziano che alcuni millenni prima dell’era cristiana sviluppò e mise a frutto le conoscenze di ingegneria idraulica e di agronomia di allora per costruire un sistema economico basato sull’agricoltura che era rispetto ai precedenti molto innovativo e foriero di benessere al punto di sostenere una civiltà di lunga durata. Se i faraoni avessero dovuto subire gli “annientalisti” di allora sarebbero rimasti al livello dell’uomo raccoglitore e cacciatore.

Più in generale occorre passare da una cultura dello scontro tra posizioni estremiste inconciliabili, alla cultura del dialogo per costruire un consenso, anche attraverso lo strumento dell’accordo, su un approccio rappresentato dall’espressione “sì, a condizione che ..”. Altrimenti vincerà l’inazione mascherata da contese verbali su base ideologica e subiremo gli eventi; a soffrire resteranno quelli le cui attuali condizioni di vita, in particolare in Africa, sono inaccettabili e non sono pochi.