Le cause e i possibili rimedi della crisi mondiale tra globalizzazione, migrazioni guerre e terrorismo

Le cause e i possibili rimedi della crisi mondiale tra globalizzazione, migrazioni guerre e terrorismo

L’anno scorso indossando i panni dell’ottimista in un post intitolato “Notte di San Silvestro e Leibniz: il migliore dei mondi possibili” ho passato in rassegna l’evoluzione positiva negli ultimi cinquanta anni di una serie di indicatori delle condizioni di vita delle popolazioni mondiali. Quest’anno per richiamare la situazione con relativa dinamica mi basta rilanciare le tabelle della figura estratta da https://ourworldindata.org/ un sito ricco di informazioni di grande rilievo. Grazie a Marco Emanuele per aver pubblicato su Linkedin la tabella che mi dispiace non abbia suscitato il livello di interesse che merita.

Prendendo spunto da questi dati mi sembra utile raccogliere alcune considerazioni cercando di evitare luoghi comuni suggeriti da ideologie irrealistiche (e nocive) e di raccogliere, con la consapevolezza che questi percorsi saranno lunghi edifficili, spunti per evidenziare percorsi che facilitino l’uscita dalla crisi, cogliendo anche l’occasione per collegare precedenti riflessioni sull’argomento.

Le caratteristiche della crisi

La popolazione mondiale nel suo complesso ha beneficiato, come dimostrano i grafici, di un progresso decisivo su vari fronti (povertà, vaccinazioni istruzione, analfabetismo, mortalità infantile) e si potrebbero aggiungere altri parametri quali disponibilità di cibo e aspettativa di vita; questo è stato possibile nonostante una crescita notevole della popolazione del pianeta che ha raggiunto i 7 miliardi di abitanti e secondo stime delle Nazioni Unite si attesterà a 9 miliardi nel 2050.

C’è necessità di ulteriori progressi, ma negare i passi compiuti o, peggio, contestare il concetto stesso di progresso è un pregiudizio ideologico ingiustificato e molto nocivo (per convincersi basta chiedere a miliardi di persone in India in Cina e in Corea se pensano di aver fatto progressi negli ultimi decenni e se sono interessati a progredire ancora).

Questo miglioramento è frutto anche della globalizzazione, che però è stata purtroppo gestita con regole inadeguate e troppo velocemente; un’occasione “avvelenata” da un’ideologia intellettualistica,il neoliberismo estremista secondo il quale basta “abbattere le frontiere e tutto va meravigliosamente bene per tutti”. I fatti hanno dimostrato che ciò non è vero e qualcuno dei fautori dell’iperliberismo comincia a ricredersi. E’ connessa con questa convinzione quella, più generica e altrettanto illusoria, secondo la quale tutto ciò che è internazionale è indubitabilmente migliore e quindi preferibile (organismiinternazionali, anche quando manifestamente inadeguati o mal orientati – e l’ONU non fa eccezione; trattati – commerciali, fiscali di controllo dell’evasione fiscale – anche quando distorcenti la concorrenza e penalizzanti per l’Occidente; si pensi a fenomeni quali ecodumping, mancato rispetto delle norme di sicurezza e protezione dell’ambienente, sfruttamento della mano d’opera in particolare minorile). Sono stati inoltre sottovalutati i fenomeni sociali, economici e anche psicologici che, sostenuti dalla convinzione che tutti potessero sentirsi “cittadini del mondo”, hanno indotto molti ad abbandonare il proprio paese in cerca di condizioni di vita migliori o addirittura per sfuggire alle guerre e al rischio della vita. Sono disponibili al riguardo informazioni provenienti da qualificati sondaggi che però raramente hanno l’attenzione che meritano.

Ampi strati di popolazione del mondo occidentale (soprattutto il ceto medio e prevalentemente in Europa, ma il fenomeno è presente anche negli USA) hanno pagato e stanno pagando per il miglioramento ottenuto dal resto del mondo un prezzo notevole in termini di tenore di vita, prospettive per il futuro proprio e dei figli, sicurezza reale eo percepita; è comprensibile che questa circostanza generi non solo recriminazioni, proteste e preoccupazioni, ma anche l’illusione di risolvere la situazione tornando al passato con soluzioni drastiche e semplicistiche, ma altrettanto non fattibili e/o inefficaci; la risposta però, non può essere bollare queste valutazioni e le conseguenti manifestazioni di volontà (Brexit, elezione di Trump, intenzioni di voto in vari paesi europei) come superficialità alimentata dal populismo della cattiva politica e di fatto ignorarle.

Parte di questo prezzo è da ritenere inevitabile perché nel grande gioco dell’economia mondiale è frequente che se qualcuno guadagna è probabile che qualcun altro perda (penso nel caso italiano all’esempio delle gravi conseguenze nella manifattura di prodotti a medio-bassa tecnologia); ma è anche vero che il prezzo è stato molto alto per una serie di errori e inadeguatezze (oltre alle due principali carenze già citate – regole e tempistica) da tutte le parti, l’Occidente e il resto del mondo.

Non tutte le aree del mondo che hanno beneficiato del progresso hanno avuto lo stesso percorso; tre sono gli elementi distintivi dei percorsi negativi: la lotta armata, (anzi, le vere e proprie guerre, sia interne tra tribù o fazioni politico-religiose, sia esterne, tra loro intrecciate con relativi risvolti economici) il terrorismo e l’immigrazione con connotati di invasione. Tutti e tre gli elementi sono collegati prevalentemente, piaccia o non piaccia, all’islamismo e più precisamente alle sue manifestazioni in Nord Africa e in Medio Oriente territori martoriati da guerre endemiche e nuove guerre insorte anche per improvvidi interventi di Paesi dell’Occidente.

Prendiamo come esempi da considerare invece largamente positivi India e Cina (e altrettanto vale per il Giappone del dopoguerra), Paesi (ma potremmo meglio dire culture) che a differenza delle popolazioni di cultura islamica non hanno colpevolizzato l’Occidente per la situazione in cui versavano coltivando un vittimismo origine di uno stato d’animo di rivalsa e vendetta; non hanno preteso compensazioni, né tanto meno hanno attaccato l’Occidente; in particolare, se hanno fatto ricorso all’immigrazione l’hanno vista come una modalità di convivenza (penso ai Cinesi negli USA) e in alcuni casi come vera integrazione (penso agli Italiani in Belgio nel secondo dopo guerra) e non come strumento di sopraffazione.

Le responsabilità della crisi

Sul lato dei paesi in via di sviluppo (mi riferisco a quelli che sono in questa condizione da oltre cinquanta anni) tra i principali motivi dell’insuccesso va inserita la corruzione, mastodontica per entità e diffusione (un sostanziale incameramento nelle disponibilità dei vertici politici, e relativi accoliti, di frazioni macroscopiche delle risorse ricevute, un male ritenuto incorreggibile, ben noto e sostanzialmente accettato). Una controprova è lo sviluppo che, anche in conseguenza della qualità della sua classe dirigente, ha avuto il Sudafrica (almeno ai tempi di Nelson Mandela) nonostante partisse da condizioni particolarmente difficili (apartheid). Nel definire la via di uscita si deve tener conto di questo dato di fatto attraverso strumenti meno partecipativi e più dirigisti da parte dei paesi finanziatori (una formula efficace per le sue relazioni internazionali la ha messa a punto la Cina, accusata per questo dalla solita intellighenzia di neo colonialismo, ma contano i risultati raggiunti e non le etichette). Alla luce di quanto osservato, trovo poco significative se non fuorvianti i due grafici della figura di Woldindata dedicate a “democrazia e a “colonialismo”: il quadro è più complesso di quanto si possa dedurre da rappresentazioni dove la definizione e la misura dei parametri (appunto democrazia e colonialismo) sono piuttosto questionabili..

Connessa con l’esigenza di ridimensionare il potere decisionale e conseguente arbitrio dei governi destinatari di aiuti nel gestire i soldi che ricevono è quella di approcci negoziali meno arrendevoli da parte dell’UE (un esempio banale ma concreto sono i rapporti, spesso inconcludenti, con in paesi di provenienza dei migranti non aventi diritto ad asilo: visto che per esempio nel caso della Tunisia ci facciamo carico (con grave danno per i nostri olivicoltori) di lasciar immettere sul mercato europeo 35 mila tonnellate di olio tunisino avremo pure il diritto di fare questa concessione solo dopo che gli espulsi di nazionalità tunisina sono stati realmente ripresi dal paese d’origine.

Quattro le principali colpe dell’Occidente all’interno della drammatica incapacità di definire una concordata strategia di risposta alla crisi:

  • il relativismo culturale post-moderno secondo il quale tutte le religioni,le culture, le filosofie hanno pari dignità, sorprendentemente accoppiato all’ingiustificato fideismo verso un mal definito multiculturalismo che comunque non potrà mai funzionare in presenza di una componente (quella islamica) intrinsecamente ostile verso le altre e imbevuta di pretesa di supremazia (per non parlare delle frange estremiste votate alla distruzione fisica dell’infedele); in un empito di autocolpevolizzazione della nostra civiltà, la maggioranza dell’intellighenzia europea indica la causa dell’ostilità di estremisti islamici residenti in Europa nella loro insoddisfazione per l’inadeguato trattamento che avrebbero ricevuto, non nella loro ideologia di intollerante supremazia; da questa situazione deriva la complicazione che nello scontro relativo al fondamentalismo islamico e alle sue cause è attivo anche un fronte interno del quale l’ambiguità delle comunità islamiche in Europa è solo una parte.
  • l’interessata inadempienza della politica che si avvia alla irrilevanza: politici che nonostante le grandi promesse e le grandi kermesse autocelebrative non sono leader con visione, ma succubi della grande finanza, interpreti superficiali del mood popolare, magari occasionale, e in realtà operano per ridurre gli spazi di democrazia (per esempio con il trasferimento di sovranità a organismi non eletti, e con l’esclusione di alcuni meccanismi decisionali, come i trattati internazionali, dalla potestà referendaria);
  • la pretesa di esportare con la forza la democrazia parlamentare rappresentativa in paesi ancora invischiati in strutture politiche tribali (e/o condizionati da forti intrecci tra religione e politica) accompagnata da errate scelte di alleati (i fautori delle primavere arabe, un fuoco di paglia che ha generato morti e peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni coinvolte amplificando i drammi di terrorismo e migrazioni) e di avversari (p.e. Putin, in nome del mantenimento dello stato quo in Crimea e delle stanche rivendicazioni egemoniche americane sui Balcani e nel Mediterraneo e a spese di tante concrete convergenze tra UE e Russia, dall’approvvigionamento energetico al contenimento dell’estremismo islamico, alla bilancia commerciale); abbiamo anche visto rovesciamenti di fronte come nel caso dei rapporti tra UE e Turchia con contraddizioni clamorose per esempio tra l’affidamento del ruolo a pagamento di “guardia di frontiere” all’esecrazione della politica turca sui diritti umani.
  • il dogma dell’austerità sempre e comunque, osservato dall’Unione Europea, una fissazione strumentale contro la quale si sono espressi illustri premi Nobel per l’economia, ma l’ideologia e la prassi germanica non si smuove (anche perché sostenuta da concreti interessi) e continua con regole redatte e applicate dalla burocrazia UE tedesco-dipendente in modo da favorire sempre il mondo tedesco e i suoi satelliti.

Parte dell’intellighenzia europea, e in particolare italiana, comincia a capire e a fare larvatamente autocritica. Tra questi alcuni erano stati molto, ma molto critici con chi come la Fallaci aveva da anni denunciato che sarebbe scoppiata inevitabilmente una guerra, ma anche con chi come Houellebecq nel romanzo Sottomissione preconizza una presa soft del potere da parte dei musulmani in Francia. Meglio tardi che mai. Dà però fastidio che l’intellighenzia non rinunci a salire ancora una volta in cattedra e a scoprire tardivamente l’acqua calda; francamente risulta strumentale e incomprensibile il generalizzato attacco – ora di moda – contro le élite nelle quali si include indiscriminatamente tutta la classe dirigente. Una lista dettagliata dei componenti l’élite la dà Federico Rampini che nel suo recentissimo libro “Globalizzazione e immigrazione. Le menzogne delle élite” si esprime cosi “Per élite intendo un ceto privilegiato che estrae risorse dal resto della società, per il potere che esercita direttamente: politici, tecnocrati, alti dirigenti pubblici nella sfera di governo; capitalisti, banchieri, top manager nella sfera dell ‘economia. Più coloro che hanno un potere indiretto attraverso la formazione delle idee, la diffusione di paradigmi ideologici, l’egemonia culturale: intellettuali, pensatori, opinionisti, giornalisti, educatori. Ci sono dentro anch’io.”

La lista delle categorie è lunga e se veramente avessero mentito e/o tradito tutti gli esponenti di queste categorie, per il’Occidente ci sarebbero poche speranze. E’ invece proprio il caso di distinguere tra i diversi componenti di queste categorie perché, per fortuna, non tutti hanno sostenuto le verità di moda e di comodo (adesso va di moda chiamarle post-verità) del “politically correct”, del relativismo generalizzato, del multiculturalismo, del “ce lo chiede l’Europa”, delle colpe del neocolonialismo, dell’internazionalizzazione come panacea, dell’esportazione forzosa in tutto il mondo dei sistemi politici occidentali.

I possibili percorsi per uscire dalla crisi

Più che cercare i colpevoli occorre investire su chi ha compreso le dinamiche sia disponibile a fronteggiarle con successo e nel contempo abbia qualificazione ed esperienza. Francamente la convinzione, diffusa in particolare in Italia, che l’incompetenza sia un pregio e che la novità sia in sé un valore è una tesi che non regge e di guai ne può generare tanti. Piuttosto, sempre con riferimento all’Italia, mettiamo a posto principi e regole, dalla legge elettorale alla rinegoziazione di gran parte dei Trattati europei – infarciti di false assunzioni e deduzioni (a partire dall’austerity) basate su modelli superati – che hanno mostrato i loro limiti drammatici.

Vediamo per esempio quali sono le proposte avanzate da Rampini su obiettivi e metodi per uscire dalla crisi: “un’economia liberata dai ricatti delle multinazionali e dei top manager; un’immigrazione governata dalla legalità e nella piena osservanza dei nostri principi; una democrazia che torni a vivere dell partecipazione e del controllo quotidiano dei cittadini; e, infine, un dibattito civile ispirato all’obiettività e al rispetto dell’ altro, non ai pregiudizi, all’insulto ealla gogna mediatica dei social.” Sono indicazioni abbastanza generiche per essere condivisibili. Mi disturba l’accenno ai social come se fossero parte dei problemi, mentre l’aggressività il cattivo gusto e ovviamente la gogna vanno evitate su qualunque canale di comunicazione dai giornali, alle TV, ai pamphlet – scientifici o sedicenti tali – e non solo nei social. Ma questo discorso ci porterebbe lontano. Più significativa può invece essere qualche considerazione sulla rilevanza che la dimensione comunicazione riveste nello scontro in atto. Il libro di Federico Rampini è ricco di elementi di informazione e mantiene un ottimismo di fondo con il quale concordo. Lo ho letto con interesse e lo consiglio, ma rimane un testo dedicato più all’analisi, anzi al “rimprovero” che alle proposte.

E’ evidente che solo l’Europa può affrontare con qualche prospettiva di successo una crisi che è certo di dimensioni incompatibili con le capacità di intervento di un singolo Paese e che va riconosciuta come intreccio di questioni drammatiche (globalizzazione, migrazioni guerre e terrorismo) che richiedono un approccio integrato. Né si può contare, per quanto riguarda l’area mediterranea, su di un’azione condotta dagli USA che forse non considerano più il Mediterraneo uno scacchiere primario, debbono gestire una fase di dialettica serrata con la Russia e sembrano orientarsi verso un atteggiamento che, rispetto al passato anche recente è più “isolazionista” e non mira a esercitare il ruolo di “poliziotto del mondo”. Forse visti i risultati conseguiti con la fase interventista (Afganistan e Iraq) è meglio così. Tornando all’UE, gli egoismi hanno prevalso, le discussioni sterili si sono susseguite, si è oscillato tra posizioni anche molto divergenti con atteggiamenti ondivaghi, ma fatti concreti e consistenti ne sono emersi ben pochi, anzi in alcuni casi si è arrivati al ridicolo come sui criteri per la ripartizione dei richiedenti asilo (e ancor più sui numeri di quelli effettivamente ricollocati in base a quei criteri). Unico programma articolato è quello italiano denominato Migration Compact il cui destino è ancora incerto, anche se permane la possibilità che venga adottato. Una prospettiva favorevole si apre in considerazione degli imminenti impegni internazionali dell’Italia a livello sia europeo (su temi quali la revisione del Bilancio UE, la revisione dei Trattati sulla gestione dei flussi migratori), sia G7 (a Taormina con presidenza italiana) sia G20, sia mondiale con la presenza dell’Italia nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, quale membro non permanente.

Una regolata al processo di globalizzazione, ammesso che sia ancora possibile o, almeno, un stretta ben progettata al potere, oggi incontrollato, della finanza internazionale è invece questione che va ben aldilà della dimensione europea e coinvolge in primo luogo gli Stati Uniti, ma anche con ruoli crescenti la Russia e la Cina. Le decisioni che prenderà al riguardo nei prossimi mesi il Governo USA, aldilà delle esternazioni di Trump, ci farà forse capire cosa ci aspetta su questo fronte.

Contributi certo solo orientativi ma mirati in concreto sulle decisioni da prendere si possono trovare in due miei post:

Sarebbe interessante se la lista delle indicazioni mirate potesse essere commentata e arricchita da chi abbia voglia di farlo.

Vedi articolo

Pathway in Monet's Garden at Giverny - Claude Monet - 1900
Pathway in Monet’s Garden at Giverny – Claude Monet – 1900
Autore : Fabio Pistella

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